https://www.theguardian.com/us-news/2019/dec/31/ocean-plastic-we-cant-see
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Isola di plastica

Sembra il nome di un libro di fantasia, ma purtroppo è tutto reale: l’isola di plastica (o Great Pacific Garbage Patch) è un’area dove si accumulano plastica e altri rifiuti nell’Oceano Pacifico.

Isola di plastica.

Capiamoci bene, l’isola di plastica non è veramente un’isola con dei confini marcati e un suolo solido e calpestabile. Anche per questo si è pensato a lungo che fosse un mito o una fake news. Per avvicinarci di più alla realtà, dobbiamo invece pensarla come una grande zuppa di detriti galleggianti. Alcuni più grandi, altri microscopici, questi resti rimangono in superficie o nei primi metri di colonna d’acqua venendo sballottati qua e là da correnti e dal vento.

Non avendo dei confini naturali, non è nemmeno facile dire quanto grande sia l’isola: in relazione alla soglia di inquinamento scelta come discriminante si passa da 700.000 km2 ad oltre 10 milioni di km2, ovvero fra lo 0.2% e quasi il 3% di tutta la superficie coperta da acqua del nostro Pianeta. Sembra poco? 700.000 km2 sono oltre due volte l’estensione del nostro Paese.

Localizzarla può non essere semplice, perché cambia posizione e forma a causa della variabilità stagionale dei venti e delle correnti. Come indicazione generale, comunque, la Great Pacific Garbage Patch orbita fra il 32°N e il 145°W. Se la ricerca fosse solamente virtuale, vi anticipiamo che l’isola sfugge all’ occhio dei satelliti: usando servizi come Google Maps o Google Earth l’isola di plastica non risulta visibile, perché 1. l’isola non è composta da una unica pila di spazzatura ma vi è mare aperto fra i detriti, 2. una parte dei rifiuti è costituita da frammenti di piccole dimensioni e 3. solo una porzione della plastica galleggia proprio in superficie.

Come si forma un’isola di plastica?

L’isola di plastica si origina da detriti di varia natura che raggiungono l’oceano dalla foce dei fiumi, dalla costa o direttamente dalle imbarcazioni. Una parte dei rifiuti ha una densità inferiore a quella dell’acqua marina (soprattutto gli imballaggi) e tende quindi a galleggiare. Le correnti marine e il vento possono quindi trasportarli anche per lunghe distanze e decine di anni: nel 1992 un carico di 30.000 paperelle di plastica è andato disperso e nell’Oceano Pacifico. Nei 25 anni successivi questi giocattoli sono arrivati sulle spiagge di tutto il mondo, dall’Alaska all’Australia, all’Atlantico! Può solleticare la curiosità il progetto Acheoplastica, un museo che raccoglie una selezione di antichi rifiuti plastici spiaggiati: vecchi flaconi degli anni ’50 o ’60 con scritte e forme ormai desuete, tappi della Moplen e molti altri. Un misto di nostalgia e orrore al sapere che dopo tutti questi anni questi rifiuti sono ancora in giro.

Se nel loro viaggio incontrano però un vortice di correnti marine, ecco che i materiali galleggianti tendono a rimanere intrappolati nel moto rotatorio. Con il tempo, l’accumularsi dei detriti porta alla formazione di quelle che chiamiamo “isole di plastica”. Le isole di plastica si formano quindi per l’azione di enormi mulinelli a rotazione lenta che gradualmente accumulano i detriti galleggianti di plastica e altri materiali. Si stima che nella Great Pacific Garbage Patch trovino posto oltre 80.000 tonnellate di plastica divisi in 1.8 trilioni di pezzi distinti, con concentrazioni addirittura di oltre 100 kg di materiale per km2 nelle zone più inquinate. Secondo The Ocean Cleanup, oltre il 90% in peso del materiale rientra nelle categorie di mega-plastica (oggetti sopra i 50 cm) e macro-plastica (fra i 5 e 50 cm), mentre guardando al numero di pezzi il 94% degli oggetti di plastica rientra nella categoria della micro-plastica (tra 0.05 e 0.5 cm). Anche se i rifiuti hanno originariamente una certa dimensione, una volta nell’acqua l’azione del vento, delle onde, dei continui urti e della luce UV hanno l’effetto di frammentare la plastica, trasformandola in residui sempre più piccoli e difficili da rimuovere.

Altre isole di plastica

La Great Pacific Garbage Patch è stata scoperta per casualità nel 1997 dal capitano Charles Moore mentre veleggiava con la sua imbarcazione, ma come è lecito aspettarsi esistono isole di plastica in corrispondenza dei principali vortici oceanici. Da allora ne sono state trovate altre:

  • Indian Ocean Garbage Patch (2010)
  • South Atlantic Garbage Patch (2017)
  • North Atlantic Garbage Patch (2009)
  • South Pacific Garbage Patch (2011)
  • Artic Garbage Patch: si trova nel mare di Barents vicino al circolo polare artico ed è la più recente oltre che la più piccola per ora.

E nel mar Mediterraneo?

Anche nel mar Mediterraneo si trovano livelli allarmanti di rifiuti plastica. Il Mediterraneo è purtroppo particolarmente vulnerabile per diverse ragioni: innanzitutto ha una conformazione quasi chiusa ed è circondato da tre continenti con elevata popolazione. In secondo luogo, le coste del Mediterraneo sono da sempre caratterizzate da intense attività costiere, come la navigazione mercantile, l’industria e la pesca. Infine, il Mediterraneo è caratterizzato da forti flussi turistici, che causano un aumento stagionale e ciclico della produzione di rifiuti e degli sversamenti in mare.

Isola di plastica. Micro plastica che fluttua.

L’Italia è responsabile di una quota dei rifiuti di plastica nel Mare Nostrum: un report del WWF stima sversiamo 53.000 tonnellate di plastica nel Mediterraneo ogni anno, dei quali una piccola parte attraverso i fiumi (il 4%), una parte da attività in mare come pesca o navigazione (il 18%) e una grande quota da attività costiere (il restante 78%).

Secondo il report The Mediterranean: Mare Plasticum di IUCN, nel complesso circa 200.000 tonnellate di plastica confluiscono nel Mediterraneo ogni anno, per lo più macro-plastica (il 94%). La quantità totale di plastica accumulata finora si aggira invece attorno al milione di tonnellate. Concettualmente il deposito di plastica può essere suddiviso in cinque spazi interconnessi: la plastica che giace sulla costa, la plastica che galleggia in superficie, quella in immersione nella colonna d’acqua, quella ingerita dagli animali ed infine la plastica depositata sui fondali. Diversamente dalle conclusioni del report del WWF, i ricercatori di IUCN indicano proprio il fondale marino come il maggior deposito di residui plastici (oltre il 99% del totale) sotto forma di micro-plastica nei sedimenti. Che la plastica galleggiante sia solo una frazione minima di quella realmente accumulata nei mari è una visione che sta prendendo piede fra gli esperti, anche se ci sono ancora tante domande che rimangono senza risposta.

Isola di plastica. Mappa del mediterraneo e dell'Italia.

Come nel caso degli oceani, la distribuzione e la composizione dei detriti plastici non è omogenea fra le diverse zone geografiche del Mediterraneo. Questo è dovuto a diverse cause, fra cui la conformazione della linea costiera, la presenza di hotspot (ad esempio le città costiere o il delta di fiumi come il Po o il Tevere) e ovviamente la forza e la direzione delle correnti marine. Recentemente si è scoperto che anche il Mediterraneo ha purtroppo la sua (prima) isola di plastica: si forma ciclicamente fra l’isola d’Elba e la Corsica, in una zona dove la disposizione dei fondali e le correnti favoriscono l’accumulo di detriti galleggianti. In passato, sono state segnalate situazioni simili al largo di Corsica, Sardegna e in Grecia vicino all’isola di Rodi.

Quali sono i danni all’ecosistema?

Come riportato da N. Nurra in Plasticene, è possibile che si formi del bio-film batterico sulla superficie dei detriti durante la permanenza in mare, e questo strato si può addirittura arricchire nel tempo con alghe unicellulari. Il fenomeno è ben noto, in inglese si chiama bio-fueling, e coinvolge ad esempio anche la chiglia delle navi. La comunità zooplantonica è purtroppo attirata da questi minuscoli frammenti di plastica coperti dal biofilm e li ingerisce per errore, facendoli così entrare all’interno delle reti trofiche marine. La ricerca ha finora mostrato che tutte le specie commestibili di origine marina sono contaminate da micro-plastiche, dai molluschi che filtrano continuamente l’acqua ai pesce spada.

Il problema è almeno duplice, ovvero da una parte si apre la questione della tutela della flora e della fauna marittima: ci sono studi che confermano che animali che hanno ingerito micro-plastiche ne derivano effetti nocivi di vario genere, dalle ridotte capacità riproduttive alla falsa sensazione di sazietà con conseguente morte per inedia. Dall’altra c’è un potenziale problema sulla salute umana, con possibili effetti sul metabolismo cellulare qualora i frammenti più piccoli fossero in grado di traslocare dall’apparato intestinale fino alla linfa e al sistema circolatorio. Questo senza nemmeno considerare la possibile presenza di additivi tossici.

Quali sono i danni all’ecosistema e la salute pubblica? La domanda è di difficile risposta e gli studiosi stanno ancora lavorando per trovare conferme, ma si sa di certo che i danni sono immensi.

Che soluzioni abbiamo?

Vista la situazione è necessario intervenire velocemente e su diversi fronti:

Agire a monte e ridurre gli sversamenti di rifiuti di plastica in mare

  • Ridurre il consumo di plastica attraverso divieti, la leva fiscale e un cambiamento delle abitudini di acquisto tutt’ora orientate all’usa e getta. Esempi in Italia di azioni della politica in questo senso sono i CAM o la Plastic Tax (anche se non ancora in vigore)
  • Migliorare la quantità e la qualità del riciclo della materia plastica, tanto per minimizzare la produzione di plastica vergine quanto per reimmettere in circolo il rifiuto togliendolo dalle discariche o dai mari in questo caso
  • Cambiare la mentalità nello smaltimento dei rifiuti. Smaltire correttamente i rifiuti è il minimo assoluto che possiamo fare per rispettare l’ambiente!
  • Ricercare materiali alternativi più sostenibili, bio-degradabili o compostabili

Agire a valle e minimizzare quanto possibile l’effetto nocivo dei rifiuti già sversati

  • Continuare a monitorare e a fare ricerca sulla salute dei nostri mari
  • Promuovere progetti e iniziative collettive. Un esempio in Italia è l’organizzazione di volontariato Plastic Free, nata nel 2019 ma è già presente in tutt’Italia. PlasticFree organizza bellissimi eventi di raccolta della plastica da boschi, coste etc. dove letteralmente c’è da rimboccarsi le maniche, oltre che eventi di sensibilizzazione nelle scuole
  • Recuperare quanto possibile dei detriti plastici già dispersi nell’ambiente inclusi mari, coste e fiumi: un esempio di queste iniziative è The Ocean Cleanup che è sempre all’opera nell’ingegnerizzazione di strumenti per ripulire i vortici oceanici. Nel 2023 non vediamo l’ora di vedere il Sistema 03 in azione!

Cosa ricordare

Le isole di plastica non sono delle vere e proprie isole, ma sono delle zone con alta concentrazione di detriti plastici galleggianti e si formano in corrispondenza dei grandi vortici marini nei nostri oceani. La più grande è la Great Pacific Garbage Patch ma ne sono state scoperte altre in diverse parti del globo, dall’oceano Artico all’oceano Indiano. Il mar Mediterraneo è toccato anch’esso dal problema della presenza di plastica, anzi risulta particolarmente vulnerabile per via della sua conformazione e dell’ intensità delle attività costiere e marittime. I frammenti di plastica entrano facilmente nella rete alimentare marina arrivando persino all’uomo generando un problema sia ambientale che di salute pubblica.

Ulteriori informazioni:

Report Fermiamo l’inquinamento da plastica, WWF: qui

Report The Mediterranean: Mare plasticum, IUCN (in inglese): qui

Articolo sul sito web di The Ocean Cleanup dedicato alla Great Pacific Garbage Patch (in inglese): qui

Sito web di Archeoplastica: qui

Articolo The missing 99%: why can’t we find the vast majority of ocean plastic? (in inglese): qui

TED talk del Capitano Charles Moore, scopritore della Great Pacific Garbage Patch (in inglese): qui

Filmato di un’operazione di pulizia dei mari ad opera di The Ocean Cleanup: qui